Tuesday 17 June 2008

Lingua, cultura e realtà

Introduzione

Il linguaggio ha sempre rappresentato un interrogativo storico che anima l’uomo, una sfida con cui non smettiamo di misurarci, proprio perché interna al nostro essere stesso.
Comprendere l’origine, la funzione e l’importanza che esso riveste nella vita di ciascuno di noi e nelle sue relazioni con gli altri equivale per molti aspetti a conoscere non solo un mezzo, uno strumento in uso nelle più differenti civiltà, ma l’uomo in quanto tale; poiché il linguaggio è “protesi che l’uomo inventa ed elabora, per rendere più agevole il suo adattamento al mondo-ambiente”
[1], artificio sociale di una mancanza naturale.
Il linguaggio è dunque ciò che caratterizza e differenzia l’uomo da ogni altra specie e non smetterà mai di affascinarci perché apre una porta sull’ignoto che ci contraddistingue, alimentando la nostra curiosità.
“La ragione è ovvia. Il linguaggio è la parte più accessibile della mente”
[2].
Eppure, malgrado la ragione sia ovvia, il rapporto tra linguaggio e mente risulta complicato da una riflessione ulteriore che è facilmente intuibile: se dal piano astratto del linguaggio ci spostiamo a quello concreto della lingua, come mantenere questa unità che partendo dalla mente porta alle lingue e viceversa?
Le risposte ipotizzabili consistono nell’innatismo linguistico e nella sua antitesi: il relativismo linguistico.
La prima corrente di pensiero è sostenuta da studiosi moderni, i quali, sulla scia dell’evoluzionismo, della genetica e non ultimo il cognitivismo, affermano principi innati e universali del linguaggio che troverebbero la loro sede nel cervello, attraverso l’evoluzione genetica. Tra i più noti vi è Noam Chomsky, ideatore della grammatica generativo-trasformazionale, teoria che sostiene l’esistenza di principi condivisi ed universali a tutte le lingue umane. Steven Pinker, appoggiandosi agli studi di Chomsky e sviluppando approfondimenti personali nel campo della psicologia cognitiva, ritiene che il linguaggio sia un istinto naturale dell’uomo e che, come titola la sua opera più celebre, la mente crei il linguaggio.
In netta contrapposizione rispetto all’innatismo vi è la teoria relativista, uno dei suoi più noti sostenitori è Edward Sapir, il quale afferma:

All’uomo il parlare sembra un atto naturale come il camminare e poco meno naturale del respirare. Eppure un momento di riflessione è sufficiente a convincerci che quella della naturalezza del linguaggio è una sensazione illusoria […] Togliete il neonato dall’ambiente sociale in cui egli è stato generato, e trasportatelo in una comunità completamente diversa. Nel nuovo ambiente, egli svilupperà l’arte di camminare come l’avrebbe sviluppata nell’ambiente originario. Ma il suo linguaggio sarà completamente diverso dal linguaggio parlato nel suo ambiente nativo.
[3]

Focalizzata l’antitesi tra le due posizioni è possibile evidenziare un’ulteriore complicazione, nota fin dai tempi della torre di Babele. Non tutti i gruppi sociali, pur condividendo il medesimo linguaggio, hanno in comune la medesima lingua; ora, pattuita in precedenza una correlazione tra mente e linguaggio, è possibile invertire i membri di tale asserzione e sostenere così che le lingue influiscono sul pensiero?
Questa riflessione è nota in filosofia fin dal periodo romantico, a partire da J. G. Herder:

Data l’interdipendenza tra lingua e pensiero, le forme di pensiero dei vari popoli possono essere comprese e studiate solo attraverso le lingue.
[4]

Sviluppando le riflessioni di Herder, Wilhlem von Humboldt riprese e ampliò tale teoria all’interno della sua opera La diversità delle lingue:

Le differenze tra le lingue non si limitano ai suoni diversi usati da esse, ma implicano differenze nel modo con cui coloro che le parlano interpretano e comprendono il mondo.
[5]

In ambito linguistico bisognerà aspettare l’inizio del ‘900 e la nascita dell’antropologia prima che qualcuno cominci a formulare una tesi accurata e basata sull’osservazione diretta delle differenti popolazioni sul tema dell’influenza linguistica. Tale idea diverrà nota come ipotesi Sapir-Whorf, dai nomi dei due studiosi che abbozzarono la teoria: Edward Sapir e Benjamin Lee Whorf.
Bisogna precisare però che non venne mai presentata una formulazione rigorosa dell’ipotesi, che fu costruita a posteriori da John B. Carroll, il quale lavorò sugli scritti di Whorf con l’intento di realizzare un testo postumo che raccogliesse la teoria. Nacque così solo nel 1956, a distanza di più di dieci anni dalla morte dell’autore, il volume Linguaggio, pensiero e realtà
[6] contenente diversi saggi di Whorf.
Gli argomenti racchiusi non sono del tutto omogenei e spaziano dalla decodificazione di geroglifici Maya allo studio delle lingue Hopi, popolazione di nativi della tribù Pueblos residente nei territori del Nuovo Messico, sui quali vengono presentati riflessioni sull’aspetto temporale dei verbi, sulle indicazioni spaziali e sulla terminologia dell’architettura; ed infine la formulazione vera e propria dell’ipotesi presente nel saggio Scienza e Linguistica
[7].
La trattazione dell’ipotesi Sapir-Whorf ha sempre rappresentato un difficile punto d’accordo tra gli studiosi a causa di molteplici componenti: la presenza di autori diversi con prospettive non sempre in accordo; la confluenza di discipline differenti, tra cui linguistica, antropologia e psicologia; e l’utilizzo di materiali di studio di varia natura alla base della medesima teoria. Si è arrivati così a postulare due chiavi di lettura della medesima tesi, note come versione forte e versione debole dell’ipotesi Sapir-Whorf.
La prima variante è conosciuta, soprattutto in linguistica, con il nome di determinismo ed afferma che il nostro pensiero è interamente determinato dalle strutture del lingua:

Dal momento che il segno preesiste al parlante, noi parliamo della realtà subendo il determinismo della lingua. In altri termini leggiamo la realtà extra-linguistica secondo categorie intellettuali che sono già state strutturate dal linguaggio. Astrarre, cioè organizzare la conoscenza è un tutt’uno con l’attitudine del linguaggio: ciò si vede bene dalla diversa segmentazione espressiva che lingue diverse danno dello spettro dei colori, una realtà naturale uguale in ogni luogo.
[8]

Una concezione dell’ipotesi in questi termini è sicuramente più vicina alle prospettive di Whorf, il quale sosteneva:

Non possiamo parlare affatto, se non accettiamo l’organizzazione e la classificazione dei dati che questo accordo stipula […] significa che nessun individuo è libero di descrivere la natura con assoluta imparzialità, ma è costretto a certi modi di interpretazione, anche quando si ritiene completamente libero.
[9]

La versione debole dell’ipotesi può essere distinta dalla precedente con il nome di relativismo. La tesi, in questo caso, si limita a sostenere che le strutture delle diverse lingue esercitano un’influenza sul processo di categorizzazione dei parlanti. Quest’idea è in accordo con il pensiero più moderato di Sapir:

Se si tracciano dozzine di linee di forme differenti, le si nota subito come classificabili nelle categorie di “rette”, “contorte”, “curve”, “zigzag”, perché i termini linguistici contengono in se stessi un carattere stimolante la classificazione. Noi vediamo e udiamo e facciamo altre esperienze in un dato modo in gran parte perché le abitudini linguistiche delle nostra comunità ci predispongono a certe scelte di interpretazione.
[10]

Il saggio da cui è stata tratta questa citazione apparve per la prima volta nel 1929; in quella data Sapir insegnava all’università di Yale, dopo essersi trasferito da Chicago nel 1927 per occupare la cattedra di antropologia e linguistica. Gli incontri con Whorf ebbero inizio a partire dal 1928, anche se un rapporto solido tra i due si costruì solamente nel 1931. Le stesure di Whorf che sostengono un’ipotesi determinista o che accennano al relativismo saranno successive al 1936. Con l’aiuto di questa preziosa cronologia possiamo constatare come le idee che furono convogliate nel formulare l’ipotesi Sapir-Whorf nacquero in momenti distinti. Alcuni studiosi, tra cui Steven Pinker, sono portati a pensare che fu Whorf, con le sue posizioni eccessive, ad influenzare il pensiero di Sapir. Ma come abbiamo dimostrato ciò non è sostenibile, anzi possiamo pensare che fu Sapir ad indicare un percorso di studio al suo allievo, il quale elaborò una versione forte delle ipotesi relativistiche per almeno due motivi. In prima istanza Whorf si rese conto che per diffondere le sue idee al grande pubblico aveva bisogno di una teoria che “scuotesse gli animi” e in questo riuscì sicuramente. Inoltre la posizione determinista nacque come decisa risposta all’innatismo che andava diffondendosi in quegli anni.
Nel percorso sin qui delineato ci si è resi conto di come una descrizione rigorosa, e che abbia riscontri scientifici, dell’ipotesi Sapir-Whorf sia difficilmente formulabile, aldilà della nota affermazione:

Osservatori che usano grammatiche profondamente diverse sono indirizzati dalle loro grammatiche verso tipi di osservazioni e valutazioni diverse di atti di osservazione estremamente simili, e non sono quindi equivalenti in quanto osservatori, ma devono arrivare a visioni del mondo in qualche modo differenti.
[11]

Si è preferito così ampliare le riflessioni e le prospettive offerte dall’ipotesi Sapir-Whorf in un lavoro di tesi che, partendo dalle opere degli autori, si apra ad una auspicabile multi-disciplinarità di indagine che risenta dell’influsso di pensatori tra loro diversi, sia per periodo storico che per campo di ricerche.

Nel corso di questo progetto alle affermazioni di Sapir ed alle brillanti deduzioni di Whorf saranno affiancati:
- il concetto di Weltansicht presente in Wilhlem von Humboldt
[12]
- le critiche del pensiero innatista di Steven Pinker
[13]
- le formulazioni della filosofia analitica di Willard Van Orman Quine
[14]
- le indicazioni antropologiche di Giorgio Raimondo Cardona
[15]
- l’approccio psicologico di Luigi Anolli e Paolo Legrenzi
[16]
Con la speranza che un campo di indagine molto ampio, che spazia tra le più differenti discipline, invece di apparire discontinuo e poco approfondito, riesca a dare risposte se non esatte, quantomeno perfettibili. Del resto era questo l’augurio che sia Whorf sia Sapir auspicavano per la linguistica:

E’ particolarmente importante che i linguisti, che sono spesso e giustamente accusati di non riuscire a guardare oltre le eleganti configurazioni della loro disciplina, diventino consapevoli di quanto la loro scienza potrebbe significare per l’interpretazione della condotta umana in generale. Che a loro piaccia o no, essi dovranno interessarsi sempre più ai numerosi problemi antropologici, sociologici e psicologici che invadono il campo della lingua.
[17]


Capitolo primo: E. Sapir e B. L. Whorf

1.1 E. Sapir: il ruolo della linguistica come scienza

Edward Sapir fu uno dei massimi esponenti della linguistica strutturale americana del ‘900. Dopo esser stato direttore della divisione di antropologia al museo nazionale del Canada insegnò antropologia e linguistica generale all’università di Chicago nel 1925 per poi trasferirsi a Yale due anni più tardi, dove incontrerà uno dei suoi più brillanti allievi: Benjamin Lee Whorf.
Per comprendere le peculiarità del metodo di formazione ed insegnamento di Sapir è necessario premettere che la linguistica americana, che andava delineandosi proprio in quegli anni, si caratterizzò da subito in modo diverso rispetto alla sorella europea. Mentre in Europa la comparazione tra ceppi linguistici radicalmente differenti non era possibile se non in uno studio di tipo diacronico, cioè un confronto su scala temporale ampia: da diversi secoli a interi millenni nel caso dello studio del sanscrito; in America era ancora viva la possibilità di uno studio diretto e sincronico di diverse lingue e culture presenti nel continente.
La linguistica era quindi considerata un metodo di studio pratico da affiancare all’antropologia per la comprensione delle culture di nativi americani che esercitavano fascino e stupore.
La passione che Sapir ebbe per l’antropologia fu inoltre dovuta agli insegnamenti diretti di Franz Boas, noto luminare di antropologia.
Boas rappresentò, all’interno del panorama americano, uno dei primi studiosi relativisti che si opposero alla teoria evoluzionista, la quale andava riscuotendo grande successo proprio in quegli anni. L’assunto che reggeva l’evoluzionismo affermava che il passaggio da semplice a complesso nello sviluppo delle culture è una tappa obbligata. Boas svolse invece numerosi studi sulle lingue degli indiani d’America, atti a screditare tale tesi e notò come alcune lingue, appartenenti a culture considerate primitive, in realtà possedevano strutture grammaticali e forme logiche ben più complesse rispetto a quelle che il senso comune considerava come maggiormente evolute.
Possiamo notare come molte delle idee espresse in antropologia dal relativismo culturale abbiano influenzato la formazione di Sapir e saranno poi alla base di quella che successivamente, con l’apporto delle esperienze di Whorf, diverrà l’ipotesi Sapir-Whorf.
Per comprendere il peso che Sapir ha avuto nello sviluppo di tale ipotesi vengono di seguito analizzati due saggi dell’autore composti tra il 1929 e il 1933 contenuti nel volume Cultura, linguaggio e personalità.
[18]
Nel primo saggio preso in esame Sapir effettua uno studio delle differenze strutturali tra le varie lingue, classificandone gli aspetti peculiari ed esponendo le prime considerazioni sull’influenza tra lingua e cultura.

La lingua ci aiuta e ci frena al tempo stesso nella nostra esplorazione dell’esperienza, e i dettagli di questi processi di aiuto e di impedimento sono riposti nei significati più elusivi delle differenti culture.
[19]

Nel secondo saggio analizzato l’autore auspica che la neo-nata linguistica del ‘900 possa diventare una scienza preziosa per la comprensione non solo delle lingue ma dei tratti psicologici, sociali e antropologici che caratterizzano l’uomo.

Tutto sommato è chiaro che negli ultimi anni l’interesse per la lingua è andato oltrepassando i confini strettamente linguistici […] Si può solo sperare che i linguisti diventino sempre più consapevoli dell’importanza della loro disciplina nel campo della scienza in generale, e non si ritengano in disparte al riparo da una tradizione che minaccia di diventare pedante, quando non sia vivificata da interessi che si trovano al di là dell’interesse formale limitato alla lingua stessa.
[20]

Sull’influenza che l’ipotesi Sapir-Whorf esercita in campo psicologico sarà dato ampio spazio di trattazione nel paragrafo 1.3, attraverso le letture di Luigi Anolli e Paolo Legrenzi.
Per quanto riguarda il legame tra l’ipotesi e la filosofia analitica, nascente ambito di studio che Sapir constatò con approvazione, “è degno di nota che negli ultimi anni la filosofia si sia interessata come mai aveva fatto prima ai problemi della lingua”
[21]; nel paragrafo 3.1 si analizzerà l’importanza che essa ha avuto per lo sviluppo del pensiero di W. V. O. Quine.
In questa sezione ci occuperemo invece di un’analisi approfondita delle nozioni linguistiche da cui Sapir formulò la teoria della relatività culturale e delle sue correlazioni in ambito antropologico.
Preliminarmente occorre esaminare la classificazione strutturale delle lingue.

E’ utile riconoscere tre distinti criteri di classificazione: il relativo grado di sintesi o di elaborazione delle parole della lingua; il grado in cui le parti di una parola sono saldate insieme; e la misura in cui i fondamentali concetti di relazione della lingua sono direttamente espressi come tali.
[22]

Per quanto riguarda il criterio di sintesi, le lingue sono suddivisibili in quattro tipi.
Vi è un primo tipo di lingue classificabile come isolanti, in cui le singole parole non ammettono di essere modificate né da affissi o suffissi né da cambiamenti interni per esprimere i concetti di numero, tempo, caso e modo; esempio di queste lingue è il cinese.
Un secondo gruppo è quello rappresentato dalle lingue debolmente sintetiche, in cui le parole possono essere modificate fino ad un certo grado di elaborazione, considerato comunque modesto; è il caso delle lingue comunemente parlate in Europa, tra cui l’italiano.
Un terzo tipo è quello pienamente sintetico, in cui le parole ammettono un alto grado di elaborazione e complessità formale; gli esempi possono essere vari, dall’arabo alle lingue europee più antiche, tra cui il latino.
Infine vi è un quarto gruppo di lingue classificato come polisintetiche in cui le singole parole hanno una funzione equivalente a quella di intere proposizioni: i vocaboli di queste lingue sono quindi equiparabili a frasi complete che altrimenti avrebbero bisogno di più parole per esprimere un concetto affine; esempio di questo tipo sono le lingue indioamericane e l’inuit, comunemente noto come eschimese.
Passando al secondo criterio di analisi linguistica, la coesione meccanica, notiamo anche qui quattro raggruppamenti.
Il tipo isolante, che abbiamo identificato secondo il criterio di sintesi, mantiene anche in questo caso le medesime caratteristiche poiché non ammette nemmeno processi di combinazione, essendo le parole unità autonome.
Un secondo gruppo è rappresentato dalle lingue agglutinanti, nelle quali è possibile scomporre una parola in parti minori aventi significato autonomo che si manterrà tale anche in altre combinazioni; all’interno di nuove formulazioni gli elementi significanti apporteranno l’idea ad essi associata.
Un terzo tipo è rappresentato dalle lingue inflessive, per alcuni aspetti simili alle precedenti; a variare è in questo caso la biunivocità
[23] tra l’elemento significante e l’idea ad esso associata, poiché in queste lingue la medesima idea può essere espressa anche attraverso elementi tra loro differenti. Dato che quest’ultima suddivisione può risultare complessa, si è scelto di utilizzare un esempio che la renda facilmente intuitiva. Nell’inglese la formazione del plurale è spesso dovuta all’aggiunta del suffisso –s in finale di parola, come nel caso di cat/cats; in italiano invece la variazione del numero avviene con l’aggiunta di suffissi che variano a seconda dei vocaboli e non può essere standardizzata: gatto/gatti, uomo/uomini, donna/donne. Quindi la realizzazione del plurale in inglese è un esempio del secondo tipo di lingue: agglutinanti, mentre l’italiano lo è del terzo: inflessive.
Vi è poi un quarto gruppo, il quale, più che avere valenza autonoma, nasce da un ramo laterale delle lingue inflessive. In questo caso la variazione di significato è dettata da variazioni fonetiche che hanno modificato nel corso del tempo, non più le desinenze, ma il nucleo interno della parola; esempio classico è l’arabo.
Infine il terzo criterio di classificazione è quello dei concetti di relazione per il trattamento grammaticale.

Sarebbe tuttavia molto difficile escogitare una soddisfacente classificazione concettuale delle lingue a causa della straordinaria diversità dei concetti e delle classificazioni delle idee che sono illustrate in forma linguistica.
[24]

Possiamo limitarci a constatare che vi sono lingue in cui “i rapporti sintattici sono espressi in maniera pura, senza che vi si mescolino implicazioni aggiuntive non relazionali”
[25], mentre in altre ciò non avviene. Le prime sono dette quindi relazionali pure, le seconde relazionali miste.
Esposta una classificazione esaustiva delle differenze linguistiche possiamo ora addentrarci nell’analisi del pensiero di Sapir in relazione all’ipotesi Sapir-Whorf; effettuando un esame critico dei suoi scritti riguardo al rapporto tra lingue e culture, poiché “la lingua è soprattutto un prodotto culturale o sociale e come tale deve essere intesa”
[26].
Per capire a fondo la problematica trattata nell’ipotesi, è essenziale invitare il lettore ad una considerazione preliminare: la lingua non è un mezzo neutrale per descrivere il mondo, essa è satura di modelli culturali inconsci, i quali entrano in gioco nei nostri atti di riferimento. Dobbiamo quindi riflettere su ciò che generalmente prendiamo come dato, impegnandoci a sostenere la possibilità che i nostri rapporti con la realtà siano mediati dalla nostra lingua materna.
Avvertiamo subito delle difficoltà a predisporci in tal modo, poiché:

La lingua è sentita come un sistema simbolico perfetto, in un ambiente perfettamente omogeneo, per trattare tutti i riferimenti e tutti i significati di cui sia capace una data cultura, siano essi sotto forma di effettive comunicazioni o siano essi sotto quella forma di ideale sostituto della comunicazione che è il pensiero.
[27]

Eppure dobbiamo desistere, rifiutare l’ipotesi di una rappresentazione perfetta della realtà che la nostra lingua offre, mettendo in dubbio noi stessi e le nostre capacità linguistiche, altrimenti il desiderio di apertura verso culture differenti non sarà mai soddisfatto. Per riuscire in questo, possiamo accettare l’invito che lo stesso Sapir ci offre:

Di tutti gli studiosi del comportamento umano, il linguista dovrebbe essere, per la natura stessa della sua disciplina, quello che mostra sentimenti più relativisti e quello che meno si lascia ingannare dalle forme della lingua che gli è propria.
[28]

Un esempio tratto dal testo dell’antropologo Cardona
[29] può esserci utile in questa direzione. Per noi europei la deissi spaziale è rappresentata attraverso due assi perpendicolari, il parlante è collocato nel centro ipotetico di essi e rispetto a questi articola le sue frasi all’interno di un dialogo con un altro interlocutore. Espressioni come “qui” e “lì”, nella nostra lingua, nascono da questo sistema rappresentativo che opera su di un ordine spaziale bidimensionale, il quale serve appunto ad esprimere i nostri rapporti di vicinanza e lontananza rispetto ad un oggetto o un soggetto. Eppure ciò che per noi è convenzionale non è universale e potrebbe variare in altre lingue, espressioni di culture differenti dalla nostra.
Nel caso degli hopi, popolazione originaria dei territori vicini al Gran Canyon, un riferimento linguistico come il nostro non sarebbe per nulla esaustivo, poiché bidimensionale. Cardona riflette sul fatto che l’habitat di queste popolazioni ha una caratteristica peculiare rispetto al nostro: l’asse verticale, o altezza, per abitanti nati in territori montuosi composti da gole, pendii e passaggi scoscesi, è di importanza primaria. Il risultato di ciò non può quindi che riflettersi nella lingua di tali popolazioni.
In hopi infatti qualsiasi riferimento spaziale non verte comunemente su due assi, come per noi europei, bensì su tre, prendendo in considerazione la verticalità ed originando una deissi spaziale linguistica di tipo tridimensionale. Espressioni come “qui” o “lì” non avrebbero per loro alcun significato se non supportate da dati in base all’altezza.

In lingue come l’avaro o l’hopi non ci sono indicazioni spaziali neutre; ogni scelta comporta automaticamente una localizzazione conoscitiva dei referenti in gioco: il parlante deve istantaneamente localizzarli nello spazio tridimensionale, tenendo conto in oltre di altri elementi ancora, come la direzione del moto o l’assenza di esso, la conformazione piana o concava degli oggetti.
[30]

Alla luce di questa esperienza possiamo ora contestualizzare la seguente affermazione di Sapir, la quale non apparirà come ingenua o mistica
[31], bensì come una straordinaria testimonianza di un pensiero brillante ed anticipatore:

La lingua sta diventando sempre più preziosa come guida allo studio scientifico di una data cultura. In un certo senso, la trama delle configurazioni culturali di una civiltà è compendiata nella lingua che esprime tale civiltà. E’ un’illusione pensare di poter comprendere i principali lineamenti di una cultura senza la guida del sistema simbolico linguistico che li rende significativi e intelligibili per la società.
[32]

La correlazione che l’autore evidenzia è quella tra realtà, cultura e lingua; relazione in cui i tre membri son in rapporto di reciproca influenza.
La cultura di appartenenza rappresenta una chiave di lettura del reale che trova manifestazione nel linguaggio, così ogni civiltà, a qualunque livello di sviluppo, imprime all’interno della propria lingua modelli di espressione che frammentano il continuum del reale. Successivamente queste tracce culturali presenti nella lingua veicoleranno le prospettive che i parlanti avranno sul reale.
Tra lingua e realtà viene dunque a crearsi una relazione basata su opposti: fondata, da una parte, sulla libertà di modificazioni a livello sociale e dall’altra sulla costrizione a livello individuale; poiché nell’uso della lingua il singolo subirà le influenze dei modelli culturali veicolati in essa.

Gli esseri umani non vivono soltanto nel mondo obbiettivo, e neppure soltanto nel mondo della realtà sociale comunemente intesa, ma si trovano in larga misura alla mercè di quella particolare lingua che è divenuta il mezzo di espressione della loro società. E’ proprio un errore di valutazione immaginare che una persona si adatti alla realtà essenzialmente senza l’uso della lingua e che la lingua sia solo un mezzo accidentale di risolvere specifici problemi di comunicazione o di pensiero. L’essenza della questione è che il mondo reale viene costruito, in gran parte inconsciamente, sulle abitudini linguistiche del gruppo. Non esistono due lingue che siano sufficientemente simili da essere considerate come rappresentanti della stessa realtà sociale. I mondi in cui vivono differenti società sono mondi distinti, non sono semplicemente lo stesso mondo con etichette differenti […] Da questo punto di vista possiamo pensare alla lingua come alla guida simbolica alla cultura.
[33]

E’ importante però non confondere la correlazione esistente tra lingua e cultura con la classificazione strutturale effettuata in precedenza, poiché la corrispondenza non è, almeno secondo Sapir
[34], a livello di forma:

Non esiste nessuna corrispondenza generale tra tipo culturale e classificazione linguistica […] La questione cambia quando si passi dalla forma generale di una lingua al suo contenuto particolare. Il vocabolario è un indice molto sensibile della cultura di un popolo, e i cambiamenti di significato, la perdita di vecchie parole e la creazione e i prestiti di parole nuove dipendono tutti dalla storia della cultura stessa […] Delle distinzioni che a noi sembrano inevitabili possono essere completamente ignorate in lingue che riflettono un tipo di cultura completamente differente, mentre tali lingue insistono, a loro volta, su distinzioni che sono del tutto incomprensibili per noi.
[35]

L’importanza che la cultura ha nella definizione della lingua, la quale a sua volta eserciterà tale influenza a livello di prospettive dei parlanti nella definizione della realtà, è quindi da intendersi a livello di lessico, di significato comunemente attribuito alle espressioni.
Il rischio è altrimenti quello di cadere in un’ottica normativa dettata dalla forma, tipica del determinismo.
La funzione creatrice esercitata dalla lingua si esplica invece a livello di contenuti comunemente appresi; ciò significa che le popolazioni hopi non adottano una deissi spaziale complessa poiché utilizzano una lingua polisintetica. Ma che nella lingua hopi polisintetica è stata introdotta, attraverso un processo culturale, una localizzazione spaziale tridimensionale all’interno del significato lessicale dei termini, i quali implicano, pena l’impossibilità di utilizzo, una denotazione spaziale complessa che tenga conto del significato culturale convenzionalmente attribuito.


1.2 B. L. Whorf: scienza e linguistica

Allievo di Edward Sapir, Benjamin Lee Whorf è noto per aver formulato in modo esplicito l’ipotesi che porta il nome dei due studiosi; tale tesi è racchiusa all’interno del volume Linguaggio, pensiero e realtà
[36], testo postumo edito da Carroll che raccolse i saggi presenti nello studio dell’autore e diede vita all’opera.
Il testo era stato pensato da Whorf come un’opera unitaria sulle teorie relativiste, ma non fu mai completato a causa della morte prematura dell’autore nel 1941. La versione che uscì nel 1956 fu quindi una raccolta di saggi di carattere vario che riflettevano la personalità poliedrica dell’autore.
Laureato in ingegneria chimica, Whorf lavorò per tutta la vita presso una compagnia di assicurazione occupandosi di prevenzione incendi; nonostante ciò coltivò numerosi interessi che spaziavano dalla biologia, alla teologia, alla fisica e infine alla linguistica. Furono proprio le sue passione nel campo della linguistica, dedicate inizialmente allo studio di scritti Aztechi e decifrazione di geroglifici Maya, che lo portarono ad incontrare Edward Sapir. Le loro frequentazioni si rafforzarono nel periodo in cui quest’ultimo si trasferì a Yale per occupare la cattedra di antropologia e linguistica generale. Whorf seguì i corsi di Sapir attratto dalle teorie relativiste, le quali andavano rafforzando alcune sue intuizioni avute in ambito lavorativo.
Occupandosi di prevenzione incendi nel reparto industriale, Whorf raccolse la testimonianza di un operaio che, fraintendendo il cartello “bidoni di benzina vuoti”, causò un incidente. Whorf teorizzò che le parole “bidoni di benzina” mantenevano alta la soglia d’attenzione degli operatori, i quali erano portati a pensare che vi fosse racchiusa una sostanza altamente infiammabile, mentre il termine “vuoto” agiva in senso contrario poiché significa privo di contenuto e non invitava a riflettere sulla presenza di eventuali residui liquidi e gassosi presenti nei contenitori. Da questo episodio Whorf incominciò così a riflettere sull’influenza che la lingua avrebbe potuto esercitare sul pensiero.
Dal rapporto con Sapir, trasse ulteriori preziose indicazioni sull’influenza tra lingue, culture e pensiero, interessandosi inoltre agli assunti teorici formulati dalla scuola antropologica di Boas.
Pur non laureandosi mai in linguistica, Whorf proseguì in modo febbrile lo studio per la formulazione della teoria che diverrà nota come ipotesi Sapir-Whorf.
In questa tesi sarà enucleata l’ipotesi basandosi principalmente sul saggio Scienza e linguistica
[37], mentre ulteriori scritti dell’autore di natura antropologica saranno lasciati sullo sfondo ed utilizzati per chiarire i passaggi teorici dell’ipotesi.
La riflessione che verrà di seguito presentata è da intendersi come un proseguimento di quanto sinora esposto sulla funzione creatrice della lingua; verranno evidenziati i pensieri in comune tra i due autori e gli eventuali momenti di rottura.
Preliminarmente, Whorf indaga alcune particolarità del lessico hopi riguardanti l’architettura, notando che il vocabolario della lingua presa in esame ha una ricca terminologia per le parti strutturali degli edifici ed introduce differenziazioni non presenti in altre lingue. Ad esempio in hopi la parola te’kwa viene utilizzata per denotare una “parete non sormontata da tetto”
[38]. Tuttavia un vocabolario così ricco di differenziazioni non fornisce la possibilità di utilizzo della parola “stanza” nei casi nominativi o accusativi; è quindi possibile dedurre che:

Un’espressione formalmente equivalente all’italiano “la mia stanza” non esiste e non ha neanche un significato linguistico; c’è quindi un vuoto nella loro lingua rispetto alla nostra.
[39]

Tale caratteristica dipende da fattori culturali per cui, all’interno della comunità hopi, espressioni che designano la proprietà di singole stanze non hanno significato, poiché l’unità abitativa è vista come uno spazio unico, non divisibile.
Successivamente viene mostrato che anche il lessico utilizzato per denotare gli edifici differisce dal nostro.

La lingua hopi ha una sola parola per indicare i fabbricati; e si può dire, senza alcuna restrizione, che la lingua hopi non ha una terminologia architettonica per classificare i fabbricati in tipi, malgrado abbia una considerevole terminologia architettonica per altri scopi.
[40]

Se ne evince che presso la cultura hopi la funzione svolta all’interno degli edifici non viene identificata con i fabbricati stessi. Ciò significa che le parole “chiesa”, “municipio” o “scuola” in hopi denotano solamente l’istituzione, in senso astratto, mentre la terminologia utilizzata per indicare l’edifico è identica in tutti e tre i casi.
In italiano ed in molte lingue europee questo non accade, poiché noi estendiamo l’uso delle parole che denotano le istituzioni anche ai fabbricati che le ospitano, così le parole “chiesa” e “scuola” nel nostro pensiero richiamano anche una particolare tipologia di edificio pubblico che ha, nella realtà come nell’immaginario collettivo, caratteristiche peculiari che lo denotano.
Su queste ed altre basi di studio pratico Whorf postulerà l’ipotesi, la quale afferma:

Gli utenti di grammatiche profondamente diverse sono indirizzati dalle loro grammatiche verso tipi di osservazione diversi e valutazione diversi di atti di osservazione esternamente simili, e non sono quindi equivalenti in quanto osservatori, ma devono arrivare a visioni del mondo
[41] in qualche modo differenti.[42]

A questo punto però occorre riscontrare una prima differenza che viene delineandosi nel pensiero di Whorf rispetto a quello di Sapir, poiché mentre Sapir approfondì le correlazioni culturali e linguistiche all’interno del lessico, affermando che l’influenza linguistica avviene a livello dei significati comunemente e culturalmente condivisi; Whorf accentuerà invece la correlazione tra struttura grammaticale della lingua e pensiero, da cui non potranno che nascere posizioni deterministe, non presenti nel pensiero di Sapir
[43].
Whorf estremizzò i risultati di quanto osservato in campo antropologico, entrando in conflitto con le posizioni della logica naturale:

La logica naturale sostiene che lingue diverse sono essenzialmente metodi paralleli per esprimere questa unica e identica razionalità del pensiero e che, quindi, esse differiscono soltanto per particolari secondari, che possono sembrare importanti soltanto perché sono considerati troppo da vicino.
[44]

Whorf accusò la logica naturale di superficialità, poiché essa non riflette su due condizioni particolari. La prima è che i fenomeni di una lingua sono spesso inconsapevoli ai suoi parlanti, agiscono cioè al di là delle conoscenze critiche del parlante, il quale apprende l’uso della lingua prima delle norme che regolano la stessa. La seconda critica consiste nella confusione che la logica naturale genera tra l’accordo sull’argomento, raggiunto tramite l’uso di una lingua, e il modo in cui tale accordo avviene; ribadendo che l’indagine sulle modalità dell’accordo è di stretta competenza grammaticale e può essere indagata dai soli grammatici.
Ciò comporta una rottura dell’atteggiamento universale verso l’uomo, la scienza e la lingua, aprendo un varco al relativismo.

Si è trovato che il sistema linguistico di sfondo, in altre parole la grammatica di ciascuna lingua, non è soltanto uno strumento di riproduzione per esprimere le idee, ma esso stesso dà forma alle idee, è il programma e la guida dell’attività mentale dell’individuo, dell’analisi delle sue impressioni, della sintesi degli oggetti mentali di cui si occupa.
[45]

Eppure l’autore non si limita a queste considerazioni, già in sé rivoluzionarie, ma prosegue delineando i primi tratti del suo pensiero determinista.
Whorf in questo si allontana da Sapir e tagliando il ponte costituito dalla cultura, realtà mediana che avvicina lingua e prospettive sul reale, afferma che è soprattutto la grammatica della lingua ad avere un’influenza innegabile per la formulazione del pensiero e la nascita delle idee nei suoi parlanti.

La formulazione delle idee non è un processo indipendente, strettamente razionale nel vecchio senso, ma fa parte di una grammatica particolare e differisce, in misura maggiore o minore, in differenti grammatiche.
[46]

Postulato ciò, l’individuo risulta allora in balia della propria lingua, schiavo della grammatica, la quale non solo influenzerà il nostro pensiero ma avrà il potere di de-realizzare il reale attraverso la sua funzione creatrice.

Analizziamo la natura secondo linee tracciate dalle nostre lingue. Le categorie e i tipi che isoliamo dal mondo dei fenomeni non vengono scoperti perché colpiscono ogni osservatore; ma, al contrario, il mondo si presenta come un flusso caleidoscopico che deve essere organizzato dalle nostre menti, il che vuol dire che dev’essere organizzato in larga misura dal sistema linguistico delle nostre menti. Selezioniamo la natura la organizziamo in concetti e le diamo determinati significati, in larga misura perché siamo partecipi di un accordo per organizzarla in questo modo, un accordo che vige in tutta la nostra comunità linguistica ed è codificato nelle configurazioni della nostra lingua. L’accordo è naturalmente implicito e non formulato ma i suoi termini sono assolutamente tassativi; non possiamo parlare affatto se non accettiamo l’organizzazione e la classificazione dei dati che questo accordo stipula.
[47]

La posizione di Whorf però va allontanandosi sempre di più dagli assunti iniziali di Sapir. In questa nuova ottica, priva di spazio per l’influenza culturale, l’individuo è schiavo di un potere puramente linguistico. Sembra che i parlanti non abbiano alcuna scelta di fronte alla grammatica della lingua e siano anzi parlati da essa, ma ciò, come ben sappiamo,è difficilmente sostenibile. Sono i parlanti che hanno il potere esclusivo di modificare la lingua, in questo accordo comune e convenzionale che abbiamo pattuito per rendere meno fragile il nostro essere di fronte alla natura.
Possiamo concedere spazio alla teoria relativista, riflettendo sul fatto che molte delle convinzioni che crediamo universali sono invece basate sulla convenzionalità. Procedendo in questa direzione, possiamo inoltre affermare che la cultura influenza le nostre scelte linguistiche ed in esse si imprime, come una traccia, che direzionerà il cammino dei suoi parlanti. Ma se ci allontaniamo da questa prospettiva e dimentichiamo l’importanza che la cultura esige, allora entriamo in un’ottica esclusivamente determinista che imporrà la grammatica delle nostre lingue come condizione immodificabile della nostra conoscenza e del nostro pensiero.
Eppure basta voltarsi un istante, riprendendo un approccio diacronico dello studio linguistico, per accorgerci che le lingue non restano entità immodificabili che regolano il nostro sviluppo, ma che anche esse, se vogliono avere per noi una qualche utilità, devono seguire il percorso di una storia che è fatta in prima istanza dall’uomo e dai suoi raggruppamenti culturali.
Per i motivi precedenti, le considerazioni di Whorf appaiono eccessive, soprattutto quando, all’interno dei sui scritti, subordina il progresso scientifico alle capacità linguistiche; imponendo alla scienza le qualità virtuose delle classificazioni grammaticali:

Questo fatto è molto importante per la scienza moderna, perché significa che nessun individuo è libero di descrivere la natura con assoluta imparzialità, ma è costretto a certi modi di interpretazione, anche quando si ritiene completamente libero. La persona più libera da questo punto di vista sarebbe un linguista che avesse familiarità con moltissimi sistemi linguistici assai differenti.
[48]

Sul finale di questo percorso, che ha cercato di seguire fedelmente gli sviluppi dell’ipotesi Sapir-Whorf attraverso il pensiero degli autori e le loro differenti formulazioni, possiamo ora fermarci a riflettere sulle complicazioni che possono nascere da interpretazioni troppo rigide di alcuni spunti presenti nei saggi di Whorf.
Una scelta intellettuale onesta, anche alla luce di studi moderni nel campo della psicologia, non può che portarci a rifiutare le formulazioni deterministe. Ciò non toglie che parte di questa ipotesi mantiene intatta la sua validità, che sarà indagata nel paragrafo successivo.


1.3 Ipotesi Sapir-Whorf: revisioni e conferme

In base a quanto sinora mostrato, è evidente che la grande difficoltà che si ha nell’esporre la tesi centrale dell’ipotesi Sapir-Whorf è interna alla teoria stessa: frutto di un pensiero composito, basato su esperienze differenti che hanno portato gli autori a formulazioni diverse, solitamente raccolte in saggi parziali e non del tutto esaustivi.
Occorre allora uscire dall’enunciazione dei suoi autori ed entrare in ambiti scientifici che abbiano indirizzi pratici tra loro differenti, col tentativo di confermare e smentire alcuni assunti alla base dell’ipotesi Sapir-Whorf.
In prima istanza esamineremo alcuni pensieri sull’ipotesi Sapir-Whorf enunciati dall’antropologo Giorgio Raimondo Cardona, presenti nel testo I sei lati del mondo, linguaggio ed esperienza
[49].
Innanzitutto gli schemi culturali percettivi e cognitivi, i modi in cui le differenti culture organizzano il continuum del reale, per divenire efficaci necessitano di combinarsi con modelli segnici.

Una cultura fa uso di molti di questi modelli, psicologici prima che linguistici, ed è convinzione difendibile che la lingua e l’uso linguistico ce ne mostrino delle linee di forza, o almeno dei punti nodali.
[50]

Nel passaggio precedente Cardona sembra accettare l’assunto alla base dell’ipotesi Sapir-Whorf, in particolare la posizione assunta da Sapir. L’autore sottolinea infatti come l’uso di differenti schemi culturali sia una necessità in primo luogo psicologica che si troverà solo secondariamente all’interno della lingua. Ciò implica al tempo stesso che non sia possibile sostenere una tesi fortemente determinista che privilegia le caratteristiche grammaticali, subordinando i parlanti al loro utilizzo; pensiero che in precedenza abbiamo ritrovato in Whorf.
Anche in questo caso la correlazione tra cultura e lingua è da intendersi nella sua biunivocità, in quanto a credenze culturali seguiranno particolari usi di tipo linguistico, i quali avranno però la possibilità di perpetuare e rendere effettivi tali condizionamenti.

Eppure molte tracce di quel che pensiamo e comunemente sappiamo filtrano in quel che diciamo, si depositano, si sedimentano in momenti ed occasioni diverse. Per noi che le usiamo le parole sono ciottoli tutti uguali, e tali devono sembrarci; ma se ci soffermassimo ad osservarli ciascuno mostra la sua storia, la sua composizione, le sostanze che vi sono dentro fossilizzate.[51]

Il pensiero sopraesposto è in accordo con quanto sostenuto nel primo paragrafo. Nella lingua ritroviamo tracce di processi culturali che influiranno sulle nostre attività di selezione del continuum naturale. Ciò implica che sia sostenibile una teoria per cui un particolare tipo di lingua, in virtù delle sue correlazioni culturali, comporti una speciale prospettiva sul mondo.
Cardona si sofferma inoltre sulle numerose obiezioni che seguiranno alla formulazione dell’ipotesi Sapir-Whorf, notando un particolare astio da parte dei suoi critici, opposizione che troveremo ancora viva nelle posizioni di Steven Pinker.

La violenza di quelle repliche è difficilmente spiegabile oggi. Da un lato le osservazioni di Sapir e di Whorf ci sembrano non solo non scandalose ma anzi perfettamente accettabili, una volta scontato il loro scarso approfondimento del ruolo del pensiero e della percezione, cosa ovvia per quegli anni; e invece molto meno si capirà perché antropologi e filosofi del linguaggio si facessero un punto d’onore del dimostrare che tra lingua e visione del mondo non c’è alcuna relazione.
[52]

Molte delle posizioni critiche del tempo, contrarie o favorevoli all’ipotesi, erano dettate da idee personali dovute alla formazione accademica, più che da studi effettivi.
Sembra dunque giunto il momento di analizzare gli atteggiamenti che una scienza pratica come la psicologia nutre verso l’ipotesi Sapir-Whorf, a distanza di più di cinquant’anni dalla sua formulazione. In questo ci serviremo del volume di Luigi Anolli e Paolo Legrenzi Psicologia generale
[53].
Data la formulazione poco rigorosa dell’ipotesi, in psicologia, come in molti altri campi che si dedicarono allo studio della teoria, nacquero due posizioni distinte. I sostenitori della versione forte, in linea con il determinismo, elaborarono una posizione per la quale “i concetti, possono essere concepiti soltanto se formulati attraverso il linguaggio”
[54], mentre nella versione debole ci si limitò a sostenere che “i concetti codificati attraverso il linguaggio sono favoriti in quanto più accessibili e facili da ricordare”[55].
E’ importante sottolineare come in entrambe le formulazioni venga utilizzato il termine “concetti”, i quali possono essere studiati solo in relazione alle parole che li esprimono. E’ quindi nel lessico, e non nella grammatica delle lingue, che possiamo trovare peculiarità che influenzeranno o meno il nostro pensiero.
Notiamo da subito come gli assunti del determinismo, sottoposti ad un’indagine scientifica, cadano:

Indubbiamente la versione forte del determinismo linguistico è insostenibile, poiché il pensiero è assai più complesso di ciò che il linguaggio può esprimere.
[56]

Mentre la tesi del relativismo culturale e la possibilità che il lessico influenzi la nostra visione del mondo, sorprendentemente trova conferma in numerose prove empiriche:

Infatti, un conto è un’esperienza non lessicalizzabile, un conto un’esperienza lessicalizzabile. Per esempio, l’organizzazione mentale dello spazio è fortemente influenzata dalle categorie linguistiche a nostra disposizione; parimenti il lessico emotivo è assai diverso tra le lingue naturali e inevitabilmente va a influenzare le esperienze emotive provate dai soggetti. In tal modo, nell’apprendere una lingua, un bambino impara modi particolari di pensare e di sentire per parlare.
[57]

Dato che già in precedenza abbiamo analizzato l’influenza culturale sulla deissi spaziale, in questo paragrafo ci occuperemo del vocabolario emotivo di differenti culture.
Nonostante le emozioni rappresentino le fondamenta di molti dei nostri comportamenti quotidiani ed alcune sensazioni come la paura e l’empatia siano considerate, sia dagli evoluzionisti che dai naturalisti, come basi per la sopravvivenza dell’uomo, non tutte le emozioni sono universalizzabili ed è anzi ipotizzabile che alcune siano frutto di convenzioni culturalmente condivise.
Dando uno sguardo ai vocabolari del lessico emotivo presenti in diverse culture possiamo notare come vi siano differenze nell’estensione: se nell’inglese sono presenti oltre 2.000 termini, tale proporzione è radicalmente ridotta in cinese, che ne contiene solamente 750; mentre nel vocabolario ifaluk, popolazione della Micronesia, non si contano più di 58 termini.
Per non incorrere in errori superficiali è necessario chiarire in via preliminare che l’assenza di un termine che descriva un’emozione non comporta l’assenza della stessa, viceversa:

La presenza della parola significa certamente la presenza di una data esperienza emotiva e ne pone in evidenza la rilevanza concettuale, semantica e relazionale.
[58]

Come si è visto in precedenza nel caso della deissi spaziale, solitamente diamo per scontato che ciò che fa parte della nostra cultura troverà necessaria corrispondenza in altre, assumendo un comportamento che pecca di universalismo.
Comunemente il problema dell’apertura verso l’altro è qualcosa su cui evitiamo di riflettere, un’esperienza alla quale ci sottraiamo, preferendo un atteggiamento protettivo verso noi stessi che ci preservi dalla paura di mettere in discussione le certezze che ci contraddistinguono. Eppure vi sono casi in cui quest’apertura è inderogabile, pena l’impossibilità operativa delle nostre azioni e del nostro vivere civile.
Certamente nel caso in cui, per motivi storici, nasca una convivenza tra culture diverse saremo costretti a porci il problema dell’altro, eppure possiamo prepararci a ciò riflettendo su problemi molto più semplici, come nel caso delle traduzioni linguistiche.

Persino il termine stesso “emozione” non è universale. Questa parola è assente presso i tahitiani, i gidjingali dell’Australia, gli ifaluk e i palau […] Il termine inglese “emotion” non trova corrispettivo nel tedesco dove esiste la parola “Gefühl” per indicare le condotte emotive a livello fisiologico e psicologico.
[59]

Oltre ad una mancante corrispondenza a livello di lessico, persino le categorie emotive non trovano corrispondenza tra una cultura e l’altra. Ad esempio gli ifaluk attuano categorizzazioni differenti dalla nostra, distinguendo la paura per gli eventi futuri “metagu”, da quella per gli eventi presenti “rus”; il loro sentimento espresso con il termine “song” è un insieme di collera, riprovazione, rifiuto per il cibo e autopunizione per punire l’altro; mentre “nguch” è un insieme di noia, nausea, seccatura, circospezione ed apatia per il caldo.
Queste dimostrazioni potrebbero proseguire in numerose lingue, rappresentanti culture che distinguono sentimenti per noi inesprimibili oppure che ne accomunano differenti, come nel caso degli ilongot delle Filippine per i quali il termine “betang” significa sia timidezza, sia imbarazzo, sia rispetto e obbedienza; ma ciò che è importante sottolineare tramite questa dimostrazione empirica è che:

Il lessico e le categorie emotive non costituiscono un fenomeno di superficie, bensì forniscono ai soggetti opportunità e vincoli per manifestare agli altri le esperienze emotive. Essi vanno a segmentare e a ritagliare in modo costitutivo e differente da cultura a cultura gli episodi e le condotte emotive nel continuum degli affetti. In particolare, l’interpretazione e la rappresentazione mentale diversa, l’attribuzione di significati diversi e il ricorso a lessici diversi implicano esperienze almeno in parte differenti a fronte di situazioni analoghe.
[60]

Abbiamo potuto constatare così come alcuni assunti alla base della versione debole dell’ipotesi Sapir-Whorf siano ben lontani dai misticismi e dalle invenzioni con cui alcuni studiosi andavano etichettandoli. Ed è forse questa la sede per sottolineare come sia Sapir, sia Whorf, abbiano saputo sviluppare, con molto anticipo rispetto alle scienze moderne, intuizioni degne del miglior umanesimo.


Capitolo secondo: universalismo e relativismo

2.1 Lingua e linguaggio

In questo capitolo ci occuperemo del confronto tra le posizioni antitetiche dell’universalismo e del relativismo culturale. Lo spazio d’incontro che si cercherà di delineare tra questi due modelli di pensiero sarà rappresentato dalle considerazioni su lingua e linguaggio.
Ci accorgiamo fin da subito che un dialogo tra queste scuole sarà difficile:

Devo riconoscerlo: io odio il relativismo. Odio il relativismo più di ogni altra cosa, eccetto forse le barche a motore in fibra di vetro. Più precisamente io penso che il relativismo sia molto probabilmente erroneo. Quello che trascura, per dirla brevemente e crudamente, è la struttura fissa della natura umana.
[61]

L’estratto precedente è contenuto nel volume L’istinto del linguaggio, come la mente crea il linguaggio opera a cura dello psicologo cognitivista Steven Pinker.
Il cognitivismo è un movimento di pensiero moderno che si sviluppò circa trent’anni fa; esso è basato su di una multi-disciplinarità di indagine che accorpa le conoscenze della genetica, della neurobiologia, della psicologia e della linguistica. In questo ultimo campo di indagine, lo studio del linguaggio, uno dei suoi massimi esponenti è Noam Chomsky, noto per le sue teorie sulla grammatica generativo-trasformazionale. Numerosi assunti di tale scuola di pensiero andarono sviluppandosi nel periodo degli anni ‘70 sull’onda delle ricerche genetiche. La nozione di grammatica all’interno di queste formulazioni non è da intendersi quindi come l’insieme dei principi che regolano le differenti lingue, bensì come un principio universale su base genetica che genera il linguaggio umano.
Il pensiero di Pinker riflette una continuità con gli studi universalistici di Chomsky, ma si basa sull’influenza delle neuroscienze: il linguaggio è un istinto umano generato dalla mente.
Possiamo constatare sin da ora un punto debole delle teorie cognitive sul linguaggio, le quali, più che rivendicare un autonomo sviluppo, rispecchiano l’atteggiamento scientifico che riscuote maggior successo in determinati periodi storici. Così come abbiamo assistito ad un passaggio dalla genetica alle neuroscienze, non possiamo escludere che ulteriori cambiamenti nell’indagine scientifica porteranno modificazioni alla base delle teorie cognitiviste, in un processo di formazione dettato dalle esigenze della comunità scientifica.
Offerto un breve inquadramento del pensiero innatista, possiamo ora tornare sul confronto tra le posizioni universalistiche e quelle relativiste. Malgrado le prime, come abbiamo appreso all’inizio di questo paragrafo, accusino il relativismo di dividere l’umanità e di trascurare la natura umana; in realtà possiamo notare da subito come il relativismo non voglia affermarsi come corrente di pensiero contraria all’universalismo, ma, pur riconoscendo l’unità della specie umana, rivendichi l’importanza che differenti comunità culturali hanno sulla formazione delle lingue e dell’individuo.
L’opera di Pinker mostra intenti esattamente opposti:

Il linguaggio non è un artefatto culturale che impariamo così come impariamo a leggere l’ora o a capire come funziona il governo federale. Il linguaggio è invece un pezzo a sé del corredo biologico del nostro cervello. Il linguaggio è un’abilità complessa e specializzata, che si sviluppa spontaneamente nel bambino, senza sforzo conscio o istruzione formale, che viene usato senza la coscienza della sua struttura logica, che è qualitativamente lo stesso in ogni individuo e che è distinto da capacità più generali come l’elaborare le informazioni o il comportarsi in modo intelligente.
[62]

L’autore, successivamente, afferma un universalismo su basi neuronali e condanna il relativismo. Nel capitolo dedicato al mentalese tenta quindi di sfatare tutti gli assunti alla base dell’ipotesi Sapir-Whorf.

Si suppone che questi principi abbiano basi scientifiche: la famosa ipotesi Sapir-Whorf sul determinismo linguistico, che sostiene che i pensieri delle persone sono determinati dalle categorie rese disponibili dalla loro lingua, e la sua versione più debole, il relativismo linguistico, che sostiene che le differenze tra le lingue causano differenze nel pensiero di chi le parla.
[63]

Pinker analizza poi le posizioni deterministe, le quali non vengono riportate in questo paragrafo poiché esposte in precedenza
[64], smentendo tramite esempi scientifici una qualche correlazione tra pensiero e linguaggio.
Eppure in questa minacciosa presa di posizione nei confronti delle teorie di Whorf, la quale ricorda la violenza delle repliche che già Cardona aveva evidenziato in studiosi precedenti, Pinker dimentica completamente gli assunti di Sapir; poiché un conto è smentire l’influenza che il linguaggio ha sul pensiero, ben altro è soffermarsi a riflettere sulle variazioni dell’esperienze lessicalizzabili presenti nelle differenti lingue, espressione di differenti culture.
Il problema di fondo di questo dialogo impossibile tra universalismo e relativismo verte proprio sulle posizioni iniziali assunte da queste due scuole di pensiero: la prima riflette solamente su linguaggio, la seconda partendo dal linguaggio si sposta alle lingue.
Lingua e linguaggio non sono termini sinonimici, anche se spesso vengono utilizzati come tali, e ciò non fa che generare confusione. Le differenze semantiche che intercorrono tra queste due parole spiegano in sé il conflitto che sta alla base dei punti di vista assunti dal relativismo e dall’universalismo.
Il linguaggio, essendo una caratteristica specie specifica dell’uomo, non può che avere tratti innati, universali e condivisi. Tutte le lingue, se pur in maniera differente, possiedono forme generali per la grammatica, la fonetica e la sintassi; questi presupposti universali vengono comunemente accettati dal relativismo.
Tuttavia, nel momento in cui dallo studio sul linguaggio ci si sposta allo studio delle lingue, non possono che emergere tratti peculiari, convenzionali e culturali delle stesse: l’articolazione e il numero dei fonemi variano da lingua a lingua, come variano le caratteristiche grammaticali, sintattiche, di significazione e lessico; ed è l’importanza di tali variazioni linguistiche ciò che l’universalismo non ammette, rendendo il confronto con il relativismo sterile e impossibile.
Chiarite le difficoltà di dialogo tra le due scuole di pensiero, in conclusione di questo paragrafo ci si soffermerà sul metodo di indagine utilizzato dal cognitivismo.
Abbiamo notato come gli assunti scientifici tratti dalla genetica e da alcune posizioni delle neuroscienze vengano prese come basi per approfondire le dinamiche linguistiche, questo processo di appropriazione non è però neutrale. Riflettendo sulla nostra disponibilità personale nel riconoscere credito a teorie differenti, possiamo notare come gli assunti scientifici esercitino su di noi un fascino maggiore rispetto ad altri. Del resto è risaputo che parole come “scienza” e “scientifico” godono di un alone semantico che le nobilita e le rafforza, poiché nell’immaginario collettivo esse appaiono come espressione degne di credito ed alle quali dobbiamo prestare fede quasi indiscutibile. Questo processo è forse la scia rimasta della cometa positivista che ha influenzato la nostra storia e influenza tuttora il nostro pensiero. Resta comunque vivo in noi il beneficio del dubbio ed è con questo vaglio critico che dobbiamo guardare alla scienza.
Chomsky in precedenza e Steven Pinker successivamente, affermeranno molte le loro teorie basandosi anche su patologie; in linguistica la più nota ed esemplificativa è l’afasia: alterazione o perdita della facoltà del linguaggio in genere in seguito ad una lesione al cervello. Tale malattia si manifesta in genere a seguito di traumi che colpiscono l’area di Broca o di Wernicke; possiamo notare che:

L’afasia di Wernicke è in un certo senso il completamente dell’afasia di Broca. I pazienti pronunciano fiumi di sintagmi più o meno grammaticali, ma il discorso non ha senso ed è pieno di neologismi e sostituzioni di parole. A differenza dell’afasia di Broca, quelli colpiti dall’afasia di Wernicke hanno una consistente difficoltà nel nominare gli oggetti, nel trovare le parole giuste, per le quali usano parole ad esse collegate o distorsioni del suono di quelle corrette.
[65]

Mentre lesioni all’area di Broca danneggiano le capacità di uso grammaticale-sintattico, le lesioni all’area di Wernicke danno luogo a confusione semantica, impedendo cioè un corretto uso lessicale. Partendo da queste ed altre prove empiriche, Chomsky prima e Pinker poi, affermeranno l’importanza che il cervello ha per l’uso del linguaggio e in particola Pinker ne dedurrà che il linguaggio non è che un istinto presente nel cervello che non ha bisogno di essere educato, insegnato o appreso, ma si manifesterà autonomamente in tutti i soggetti a seguito dell’evoluzione epigenetica. Tali teorie nascono da deduzioni che hanno però bisogno di essere vagliate criticamente; in questo il testo La natura e la regola
[66], che racchiude il dialogo tra il neuro-scienziato Changeux e il filosofo Ricoeur, può esserci utile.
La prima critica che possiamo muovere alle teorie esposte in precedenza è piuttosto banale e consiste nel sostenere che non è attraverso patologie che possiamo comprendere il funzionamento di un individuo normale o “felice”
[67], questo almeno finché non saremo a conoscenza di tutti i fenomeni, cerebrali e non, che compongono la normalità.
Ne consegue un atteggiamento di rifiuto della causalità materiale che numerosi scienziati adottano, procedura che consiste nel porre in relazione diretta struttura e funzione, pur non conoscendo eventuali realtà che potrebbero intervenire e mediare questo rapporto. In precedenza il medesimo principio era adottato dagli studiosi cognitivisti, affermando che l’area di Broca è alla base del funzionamento grammaticale-sintattico, mentre quella di Wernicke coordina il lessico. Il filosofo Ricoeur adotta un atteggiamento di rifiuto rispetto a tale pensiero comunemente accettato nelle neuroscienze:

Alla causalità effettiva, che lei rivendica, oppongo la causalità substrato [...] Propongo quindi che si dica: il cervello è il substrato del pensiero, il pensiero è l’indicazione di una struttura neuronale soggiacente. Il substrato e l’indicazione costituirebbero, così, i due aspetti di un rapporto di correlazione a doppia entrata.
[68]

In base a quanto osservato possiamo affermare che le deduzioni delle neuroscienze spesso necessitano di un distacco preliminare ed un successivo avvallo critico.
Per quanto riguarda il rapporto tra linguaggio e cervello, non sembra che esso posso essere spiegato secondo causalità materiali: strutture che determinano funzioni, ma che invece esso vada inteso secondo una trama di relazioni che da basi naturali influiscono sullo sviluppo linguistico dell’individuo.
Partendo da queste riflessioni possiamo constatare come sia ancora ben lontano il momento in cui poter affermare che il linguaggio e lo sviluppo delle molteplici lingue all’interno di differenti culture, siano dovuti a basi puramente cerebrali o mentali. Ed è corretto sostenere che molti degli studi sinora condotti non dimostrano che sia la mente a creare il linguaggio, o che esso sia un istinto, ma semplicemente che la capacità linguistica richiede predisposizioni cerebrali; predisposizioni che non vanno comunque confuse con causalità materiali o effettive.


2.2 Wilhlem von Humboldt: Weltansicht

In questo paragrafo si tenterà di chiarire gli atteggiamenti di Humboldt in merito alle posizioni universaliste, relativiste e non ultime quelle deterministe; tali riflessioni verteranno sulla base della celebre opera La diversità delle lingue
[69] edita nel 1836.
Molti sono gli studiosi portati a ritenere che influssi delle idee di Humboldt siano presenti all’origine della formulazione dell’ipotesi Sapir-Whorf. Un primo elemento a favore di ciò è dovuto al fatto che, all’interno della scuola di Boas, Sapir ebbe modo di conoscere Daniel Brinton, il quale si occupava delle traduzioni dei saggi humboldtiani. Del resto è evidente che posizioni a favore del relativismo sono espresse all’interno dell’opera dell’autore; si tratta solamente di capire quali siano le eventuali differenze rispetto all’ipotesi Sapir-Whorf.
In prima istanza Humboldt riflette sulle correlazioni che vi sono tra linguaggio e realtà, affermando che esso è di primaria importanza per la definizione del reale:

Anche in considerazione di ciò che viene prodotto attraverso il linguaggio, non trova conferma l’idea secondo la quale esso designerebbe semplicemente gli oggetti già percepiti. Tale idea anzi non consentirebbe mai di dare pienamente conto del profondo e inesauribile contenuto del linguaggio. Come senza il linguaggio non è possibile alcun concetto, così pure per l’anima non vi potrà essere nessun oggetto, poiché perfino l’oggetto esterno acquista per essa compiuta essenzialità solo mediante il concetto.
[70]

L’autore sostiene dunque l’importante relazione che vi è tra linguaggio e prospettive sul mondo, ma non si limita a quest’osservazione primaria e prosegue dichiarando:

Poiché ad ogni percezione oggettiva si mescola inevitabilmente la soggettività, è possibile considerare ogni individualità umana, anche indipendentemente dalla lingua, come una particolare prospettiva nella visione del mondo.
[71]

Humboldt dunque, distanziandosi dalle posizioni deterministe di Whorf, lascia libero spazio all’agire soggettivo; ma in questo non nega l’influenza che la comunità linguistica ha nella definizione della realtà. Riallacciandosi a quanto espresso da Sapir, l’autore afferma che la lingua condiziona la nostra Weltansicht:

Essa diventa tale però ancor più tramite la lingua, poiché, la parola a sua volta, avendo assunto un’autonomia di significato, si ripresenta al cospetto dell’anima come un oggetto, arrecandovi una nuova peculiarità.
[72]

Proseguendo non possiamo che notare un legame sempre più affine tra il pensiero di Sapir e quello di Humboldt, infatti quest’ultimo rifletterà sull’importanza che la cultura ha per la definizione della lingua e dei significati in essa contenuti.

Poiché sulla lingua della medesima nazione influisce una soggettività uniforme, in ogni lingua è insita una peculiare visione del mondo. Come il singolo suono si inserisce tra l’oggetto e l’uomo, così la lingua intera si inserisce tra l’uomo e la natura, che su questi esercita un influsso interno ed esterno […] L’uomo vive principalmente con gli oggetti, e quel che è più, poiché in lui patire e agire dipendono dalle sue rappresentazioni, egli vive con gli oggetti percepiti esclusivamente nel modo in cui glieli porge la lingua. Con lo stesso atto, in forza del quale ordisce dal suo interno la rete della propria lingua, egli vi si inviluppa, e ogni lingua traccia attorno al popolo cui appartiene un cerchio da cui è possibile uscire solo passando, nel medesimo istante, nel cerchio di un’altra lingua.
[73]

La visione del mondo si costituisce allora nelle lingue, espressione di differenti culture. Non vi sarà perciò un mondo, ma una pluralità di mondi corrispondente alla pluralità delle prospettive che ciascuna lingua dischiude.
Le lingue non sono mezzi atti a scoprire una realtà naturale già esistente, ma tramite le differenze semantiche in esse racchiuse ci è data la possibilità di scoprire realtà molteplici ed ignote.
Se la diversità è avvertita a livello di significati culturali impliciti nelle differenze linguistiche, l’unica prospettiva che ci resta è nuovamente quella di un timore biblico avvertito nella maledizione di Babele?
No, per ritrovare salvezza dobbiamo allontanarci da questo mito, imparando a mettere in dubbio noi stessi e le conoscenze che riteniamo assolute od universalmente vere. Dobbiamo aprirci ad un orizzonte in cui:

La diversità non solo non è una punizione divina, ma è anzi un dono inestimabile. Sicché è questa, e non la perduta unità edenica, la meta alla quale aspirare.
[74]

Chiariti i punti di concordanza tra Humboldt ed il relativismo culturale e linguistico espresso in Sapir, occorre ora esaminare le differenze che il pensiero dell’autore ha rispetto al determinismo. In questo il concetto di Weltansicht ci sarà d’aiuto.
L’idea di “visione del mondo” espresso da Humboldt non dev’essere fraintesa con i concetti affini di Weltanschauung e di Weltbild. In quanto quest’ultimo:

Si riferisce all’immagine del mondo, risultante da un elaborazione concettuale e scientifica, che mira a rappresentarlo in un ordinamento stabile e il più possibile oggettivo; si parla così, ad esempio, di Weltbild tolemaico, newtoniano, einsteniano, ecc.
[75]

Mentre l’idea di Weltanschauung ha un significato ulteriore:

Con cui si intende una concezione del mondo, un insieme di idee e credenze che, ritenute vere sulla base di un’esperienza soggettiva, definiscono il pensiero e comportamento di chi li riconosce tali.
[76]

Il concetto di Weltansicht è invece da intendersi come l’originario approccio visivo che l’uomo ha della realtà:

Pertanto Weltansicht precede necessariamente il costituirsi di una Weltanschauung o di una Weltbild, in quanto non interpreta il mondo, ma lo rende piuttosto possibile, risalendo al momento della sua formazione.
[77]

L’idea che Humboldt suggerisce è quindi quella di un individuo irretito nella propria lingua, ma non prigioniero in essa, come invece appare dal punto di vista adottato da Whorf; il quale sembra far propria una prospettiva che concorderebbe con l’idea di Weltbild, ma striderebbe con quella di Weltansicht a cui si rifà Humboldt. Le due posizioni quindi, se pur simili, condividono poco o nulla.
Humboldt nelle sue teorie linguistiche nota la fitta rete di analogie create dalla lingua, ma non arriva a delineare un’ipotesi per cui il pensiero risulti determinato da questa; esso è semmai influenzato dalla lingua. Poiché:

Le lingue rassomigliano nel loro insieme ad un prisma di cui ogni faccia mostra l’universo sotto un colore diversamente sfumato.
[78]

Possiamo supporre che, per quanto il linguaggio mostri tratti universali e sia per tutti il medesimo prisma; le lingue, lenti che colorano il mondo in modo differente, abbiano al loro interno tratti peculiari che creano differenti prospettive sul mondo. Resta a noi quindi cercare l’unità presente tra differenze linguistiche e visioni del mondo.
Nel tentativo di avvicinare il pensiero dei vari autori non va però dimenticato un tratto particolare della filosofia di Humboldt, la quale lascia maggiori libertà all’individuo; riconoscendo principalmente nello spazio del “discorso”, e non in quello della lingua, la creazione delle differenti visioni del mondo.

Capitolo terzo: significato e riferimento

3.1 W. V. O. Quine e la filosofia analitica

La filosofia analitica andò affermandosi come autonomo ambito di studi filosofici sul finire del XIX secolo. Essa si distingue dalla tradizione storico-filosofica precedente per la particolare attenzione che mostra nei confronti del linguaggio.
In Europa tra le figure più rappresentative di tale movimento vi sono: Frege, considerato il padre della filosofia analitica; Carnap, allievo di Frege ed esponente di spicco del Circolo di Vienna; Russell, in posizione di continuità rispetto al pensiero di Frege; e Wittgenstein. Quest’ultimo, allievo di Russell a Cambridge, fu l’autore del Tractatus logico-philosophicus, opera che contribuì a diffondere per tutto il Novecento l’interesse verso le correlazioni esistenti tra logica e linguistica.
In questa sede, tuttavia, tra i molti filosofi analitici si è preferito analizzare il pensiero di Quine; filosofo americano che, pur rifacendosi alla filosofia europea di inizio secolo, si distinse per le sue idee relativiste. Tratti di tale pensiero sono riscontrabili nelle opere: Parola e oggetto e Il problema del significato.
Le somiglianze tra alcuni scritti di Quine e le posizioni sostenute da Edward Sapir e Benjamin Lee Whorf saranno mostrate analizzando il saggio Il problema del significato in linguistica
[79]. Proprio in questo scritto troviamo riportato il nome di Whorf: testimonianza concreta di una riflessione su tematiche comuni.
Nel saggio l’autore analizza la problematicità dell’attribuzione di significato nelle differenti lingue, altrimenti nota come la maledizione della torre di Babele.
Preliminarmente le osservazioni sembrerebbero portarci nel campo della speculazione filosofica; in realtà, se siamo portati a sostenere un certo relativismo culturale, vedremo come i dubbi avanzati da Quine saranno importanti per definire le relazioni esistenti tra significato e riferimento.

L’oggetto della lessicografia è o sembra essere, la ricerca sulla identità di significati; l’indagine delle variazioni semantiche si occupa invece delle variazioni di significato. Mancando ancora una spiegazione soddisfacente della nozione di significato, i linguisti si trovano, sul terreno semantico, nella situazione di non conoscere ciò di cui parlano […] Da un punto di vista teorico questa situazione non è affatto soddisfacente, come ben sanno con rammarico quei linguisti di mentalità più speculativa.
[80]

La mancanza di una definizione esatta per la nozione di significato ha incoraggiato alcuni linguisti a confondere tale concetto con quello affine, ma differente, di riferimento. Quine, con un esempio tratto da Frege, ne mostra le differenze:

La locuzione “stella della sera” denota un certo oggetto fisico grande e di forma sferica, che viaggia nello spazio a parecchi milioni di miglia dalla terra. La locuzione “stella del mattino” denota la stessa cosa, come probabilmente fu stabilito per la prima volta da qualche attento babilonese. Ma non si può certo dire che le due locuzioni abbiano lo stesso significato; altrimenti quel babilonese si sarebbe potuto risparmiare le sue osservazioni e gli sarebbe bastato riflettere sul significato delle parole impiegate […] Dal momento che i due significati sono diversi tra loro, devono essere allora altro dall’oggetto denotato, che invece è uno e il medesimo in entrambi i casi.
[81]

L’autore, nel passaggio precedete, non solo esplica la differenza tra il concetto di significato e quello di riferimento, ma afferma inoltre che la variazione di significato non comporta una variazione nell’atto di riferimento, il quale resta il medesimo in entrambi i casi. Su questo punto saranno mostrate possibili critiche nel paragrafo seguente.
Successivamente l’autore introduce le figure di due studiosi differenti: il lessicografo e il grammatico.

Il compito del lessicografo […] non è quello di determinare la classe delle sequenze di significati per una data lingua, ma piuttosto quello di specificare la classe delle coppie delle sequenze linguistiche sinonime per una data lingua o, a seconda, per una coppia di lingue. Il grammatico e il lessicografo si occupano dei significati nella stessa misura, quale che essa sia; il grammatico vuole sapere quali forme siano significanti, o abbiano significato, mentre il lessicografo vuole sapere quali forme siano sinonime, o di uguale significato.
[82]

Mentre la funzione del grammatico è quella di scomporre la catena fonica degli enunciati linguistici, per analizzare le più piccole unità morfemiche che danno luogo al processo di significazione e studiare il modo in cui tali unità sono tra loro correlate, cioè le norme sintattico -grammaticali; il lessicografo ha l’incarico assai problematico di confrontare tra loro le unità di significazione linguistica appartenenti alla medesima lingua, oppure aventi origine da idiomi differenti. Proprio il secondo punto dell’analisi lessicografica ci riporta alla tematica trattata nell’ipotesi Sapir-Whorf.

Si ritiene che la sinonimia di due forme linguistiche più o meno consista in una approssimativa somiglianza delle situazioni che le due forme evocano, e in una approssimativa somiglianza degli effetti che le rispettive forme hanno sull’ascoltatore […] Osserviamo un tale che parla la lingua Kalaba […] dopo aver trovato una prova sufficiente per mettere in correlazione una data sequenza di suoni della lingua Kalaba con una data combinazione di circostanze, noi supponiamo che quella sequenza di suoni sia sinonima di un’altra, italiana (poniamo) che è in correlazione con le stesse circostanze.
[83]

Quindi il compito del lessicografo si risolverebbe in un confronto delle situazioni simili in cui i vocaboli appartenenti a differenti lingue sono utilizzate. Eppure una traduzione nata da questa comparazione semplicistica non tiene conto delle diverse “visioni del mondo” presenti nelle lingue, riflesso di culture che non necessariamente hanno in comune le medesime caratteristiche.
In base a quanto esposto nei capitoli precedenti non dobbiamo dimenticarci che:

Gli aspetti di rilievo della situazione che terminano in una data espressione della lingua Kalaba sono per larga parte nascosti nella persona di colui che parla, dove essi erano già fissati dall’ambiente che la precede.
[84]

Non potendo quindi escludere dall’analisi linguistica gli aspetti culturali inconsci, dobbiamo effettuare una comparazione tra i due lessici che tenga conto dei particolari retroterra; poiché differenze culturali, come evidenziato nel caso della deissi spaziale o del lessico emotivo, esercitano un’influenza sulla visione del mondo dei rispettivi parlanti. Ne consegue che:

Se potessimo ammettere che l’unica differenza fra il nostro interlocutore che parla la lingua Kalaba e quello che parla la lingua italiana, se osservati in situazioni esterne simili, stesse nel come essi si esprimono e non, per così dire, in ciò che essi dicono, allora la metodologia di determinazione dei sinonimi sarebbe abbastanza semplice […] Ma naturalmente il guaio è che ciascun interlocutore non eredita soltanto le abitudini strettamente linguistiche di sintassi e di lessico dal suo ignoto passato.
[85]

Vediamo allora come molte delle tematiche sostenute nell’ipotesi Sapir-Whorf tornino estremamente attuali, portando con sé i relativi[86] enigmi destinati a rimanere insoluti.
Da un punto di vista teorico la difficoltà più importante sta nel fatto che, come Cassirer e Whorf hanno sottolineato, non c’è in linea di principio nessuna lingua che si distacchi dal resto del mondo, per lo meno per come la concepisce colui che in quella lingua parla […]Non è chiaro neanche in linea di principio se abbia senso pensare che parole e sintassi varino da lingua a lingua mentre il contenuto rimane immutabile; eppure è proprio questo che implicitamente supponiamo quando parliamo di sinonimia, almeno di quella fra espressioni di lingue radicalmente diverse.[87]

L’unica possibilità di confronto linguistica è dettata dalla condivisione culturale, venendo meno questa tutti i tentativi di traduzione non possono che rimanere vani. Poiché:

Ciò che fornisce al lessicografo un cuneo di inserimento è il fatto che i modi in cui gli uomini rendono in concetto il loro ambiente, in cui analizzano il mondo in cose, presentano molti aspetti che sono comuni a molte culture.
[88]

L’utilizzo di questo cuneo deve sottostare a regole sensate. Il lessicografo, nel suo lavoro, è tenuto a valutare con imparzialità la possibilità di concordanze e dissensi linguistici e culturali, evitando di acuire sia gli uni che gli altri. Altrimenti si corre il rischio di affermare vantaggi personali sottostanti la propria cultura, che poco hanno a che fare con il lavoro imparziale di un linguista aperto nel rilevare possibili disaccordi e armonie.
Certamente vi saranno elementi di unione tra le valutazioni linguistiche appartenenti a culture differenti. Non sorprenderà forse che tutte le civiltà condividono il medesimo significato della parola “io”, eppure numerose differenze potrebbero sorgere qualora analizzassimo vocaboli con significati affini come “moglie”, “compagna” o “amante”, termini che per noi hanno un senso, prima di tutto culturale, ben distinto; ma che potrebbero non averne in altre culture, magari non soggette al vincolo matrimoniale, oppure aperte alla poligamia.
Il lavoro del lessicografo deve quindi basarsi sull’utilizzo di un cuneo sensato, che non recida le differenze culturali, ma che tenti di comprenderle.

La natura di questo cuneo che si inserisce in un lessico sconosciuto incoraggia l’erroneo concetto di significato come riferimento, dal momento che le parole vengono a questo livello interpretate guardando agli oggetti cui si riferiscono. Così non credo sia inopportuno ricordarci che neanche qui significato vuol dire riferimento. Il riferimento potrebbe essere “stella della sera”, per tornare all’esempio di Frege, e quindi anche “stella del mattino”, che è la stessa cosa; ma “stella della sera” potrebbe essere una buona traduzione e “stella del mattino” una cattiva.
[89]

E’ nuovamente il caso di ricordare che molte delle nostre convinzioni sono frutto di convenzioni che hanno ben poco di universale; le quali dipendono solamente dalla nostra visione del mondo, che, a ben vedere, non possiamo pretendere venga condivisa, né tanto meno compresa.
L’unico appello che possiamo fare è quello di un’apertura verso di noi e la nostra cultura, non dimenticandoci però che tale appello dev’essere reciprocamente valido, altrimenti corriamo il rischio di affermare noi stessi a discapito di qualsiasi differenza.

Il lessicografo sarà sempre più soggetto a proiettare se stesso, con la sua Weltanschauung indoeuropea, nei panni del suo informatore che parla la lingua Kalaba; e ricorrerà sempre più spesso a quell’estremo rifugio di tutti gli scienziati che è l’appello all’interna semplicità del sistema che sta costruendo.
[90]

3.2 L’influenza culturale sul piano del riferimento

Nel paragrafo precedente abbiamo analizzato le corrispondenze tra il pensiero di Quine ed alcuni assunti alla base dell’ipotesi Sapir-Whorf. In particolare abbiamo approfondito le difficoltà che avvertiamo nel tentativo di tradurre un significato da una lingua all’altra, poiché qualora le visioni del mondo racchiuse nella cultura dei parlanti siano differenti, lo stesso tentativo di traduzione non può che rimanere incompiuto.
Quine, nell’esporre Il problema del significato in linguistica, attua una distinzione che si rifà a Frege. Tramite l’esempio della variazione di significato nelle proposizioni “stella della sera” e “stella del mattino”, espone la differenza presente tra i concetti affini di significato e di riferimento. L’autore afferma che:

Dal momento che i due significati sono diversi tra loro, devono essere allora altro dall’oggetto denotato, che invece è uno e il medesimo in entrambi i casi
[91].

Pur aderendo a questa distinzione tra significato e riferimento vi è un particolare che merita di essere focalizzato.
Come può una dicotomia presente tra i significati essere assente tra i referenti?
Le proposizioni “stella della sera” e “stella del mattino” non solo rappresentano significati discordanti: nomi distinti che denotano il medesimo oggetto; ma si spingono ben oltre, mostrando differenze ulteriori a livello di riferimento, poiché sono significati differenti di atti di riferimento differenti.
Se accettiamo di classificare il referente come l’oggetto denotato tramite l’atto di riferimento e il significato come l’idea, il concetto dell’oggetto stesso, capiamo fin da subito che riferimento e significato non vanno divisi l’uno dall’altro; poiché là dove muta il concetto dell’oggetto, il referente non può rimanere il medesimo e condividere le medesime proprietà. Altrimenti la funzione del significato sarebbe quella di una semplice etichetta linguistica priva di contenuto e la lingua non potrebbe manifestare la funzione creatrice che le è propria.
Così come la lingua esercita una prospettiva culturale sul mondo e sugli oggetti che lo compongono, il riferimento non va inteso come distinto dal suo significato convenzionale e culturale, anzi esso varia da cultura a cultura, di lingua in lingua, ed è mediato dal significato.

In realtà, gli stessi comuni, solidi oggetti dell’esperienza quotidiana, i “fatti irriducibili e ostinati” che prendono corpo nelle nostre più familiari interazioni sensibili, ‘si danno’ sempre e solo attraverso qualche mediazione.
[92]

Questa mediazione che Franco Brioschi sottolinea è proprio quella rappresentata dal linguaggio.

Anche il linguaggio in senso stretto interviene con un ruolo fondamentale: perché proprio il linguaggio in senso stretto ci fornisce infine lo strumento più potente per la costruzione di categorie sempre più complesse attraverso cui articolare, discriminare, classificare le nostre esperienze. […] Noi facciamo riferimento ad un certo oggetto se e solo se un qualche simbolo lo denota. O forse neppure questo basterebbe, perché rischiamo di perpetuare l’equivoco più insidioso. La verità è che il linguaggio, come abbiamo detto poco fa, modella a priori il dominio su cui è proiettato, piuttosto che offrirne un rispecchiamento a posteriori.[93]

Non solo tra lingue diverse il significato modifica gli atti di riferimento possibili; persino all’interno della medesima lingua condivisa da una determinata comunità, assunto un referente comune, la variazione di significato muta la propensione del soggetto verso l’oggetto.
Ponendo che in italiano si faccia riferimento ad un ramo d’albero, avremo la facoltà di nominare tale oggetto con i termini “legno” o “legna”, tale opposizione nel finale di parola, la sola variazione a/o, classifica così due elementi distinti: “legna” è il significato che convenzionalmente attribuiamo a del materiale che poi sarà arso; legno è invece il significato che assegniamo a del materiale per le costruzioni. Così, proprio come nell’esempio delle proposizioni “stella della sera” e “stella del mattino”, i significati variano e l’atto di riferimento non ha la possibilità di rimanere inalterato; poiché da un medesimo referente, tramite la lingua, abbiamo la facoltà di attribuire due significati distinti che danno luogo a due atti di riferimento distinti.

Il significato è, in primo luogo, esso stesso “un punto di vista”, piuttosto che un’entità: una forma che proiettata sui contenuti dell’esperienza li separa e li ordina entro i confini da essa imposti; una forma definita a propria volta, come il significante sonoro, dalle relazioni che, all’interno di questo o quello schema, la distinguono e contrappongono rispetto alle forme circostanti.
[94]

All’interno della medesima lingua, espressione di un’univoca prospettiva sul mondo, avvertiamo le modificazione che il processo di significazione comporta sul piano del riferimento. Tanto più in lingue tra loro differenti, ed aventi verso il medesimo oggetto significati culturali distinti, i parlanti saranno portati a compiere atti di riferimento diversi.
Non è forse questa la forza creatrice espressa dalla lingua?
Essa, da un medesimo oggetto, può creare atti di significazione e riferimento differenti, i quali condizioneranno la nostra propensione verso un referente che, invece di rimanere immutabile, seguirà i condizionamenti culturali impressi nella lingua.

In conclusione di questa tesi, per non dare adito ad interpretazioni deterministe che subordino l’uomo e le facoltà umane alla forza coercitiva della lingua, è bene ricordare che:

Nel corso di un lento processo di appropriazione dell’ambiente naturale tutte le comunità umane hanno sviluppato un sistema di classificazione, mentale prima che linguistico, da proiettare sul mondo circostante: animali, piante, fenomeni naturali, conformazioni del terreno, sensazioni.
[95]

Nessuna lingua quindi crea in sé e per sé una classificazione oggettiva e inderogabile del mondo; questa spetta sempre all’appartenenza culturale dei parlanti.
Le lingue rappresentano solamente i riflessi di differenti civiltà aventi un determinato schema classificatorio del reale. Riflessi che illumineranno ed influenzeranno le prospettive delle generazioni successive.


Bibliografia

* Luigi Anolli & Paolo Legrenzi, Psicologia generale, il Mulino, Bologna, 2001
* Franco Brioschi & Costanzo Di Girolamo, Elementi di teoria letteraria, Principato, Milano, 2003
* Franco Brioschi, Un mondo di individui. Saggio sulla filosofia del linguaggio, edizioni Unicopli, Milano, 1999
* Giorgio Raimondo Cardona, I sei lati del mondo. Linguaggio ed esperienza, Laterza, Bari, 1985
* Giorgio Raimondo Cardona, La foresta di piume. Manuale di etnoscienza, Laterza, Bari, 1985
* Jean Pierre Changeux & Paul Ricoeur, La natura e la regola. Alle radici del pensiero, Raffaello Cortina editore, Milano, 1999
* Simona Chiodo (a cura di), Che cosa è arte, la filosofia analitica e l’estetica, UTET, Novara, 2007
* Paolo D’Alessandro, Critica della ragion telematica. Il pensiero in rete e le reti del pensiero, LED, Milano, 2007
* Edoardo Esposito (a cura di), Sul ri-uso. Pratiche del testo e teoria della letteratura, Francoangeli, Milano, 2007
* Roberto Giacomelli, La magia del significato. Corso elementare di semantica della parola, Cuem, Milano, 2001
* Wilhlem Von Humboldt, La diversità delle lingue, Laterza, Bari, 1991
* Edi Minguzzi, Codici e comunicazione. Problemi di linguistica generale, Cuem, Milano, 2003
* Steven Pinker, L’istinto del linguaggio. Come la mente crea il linguaggio, Mondadori, Milano, 1998
* W. V. O. Quine, Il problema del significato, Ubaldini editore, Roma, 1966
* Edward Sapir, Cultura, linguaggio e personalità, Einaudi, Torino, 1972
* Edward Sapir, Il linguaggio, introduzione alla linguistica, Einaudi, Torino, 1969
* William I. Thomas, Gli immigrati e l’America. Tra il vecchio e il nuovo mondo, Donzelli Editore, Roma, 2000
* Benjamin Lee Whorf, Linguaggio, pensiero e realtà, Boringhieri, Torino, 1970

Note

[1] Paolo D’Alessandro, Critica della ragion telematica, il pensiero in rete e le reti del pensiero, LED, Milano, 2007, p. 60
[2] Steven Pinker, L’istinto del linguaggio, come la mente crea il linguaggio, Mondadori, Milano, 1998, p. 398
[3] Edward Sapir, Il linguaggio, introduzione alla linguistica, Einaudi, Torino, 1969, p. 3-4
[4] Edi Minguzzi, Codici e comunicazione, problemi di linguistica generale, Cuem, Milano, 2003, p. 54
[5] W. Von Humboldt, La diversità delle lingue, Laterza, Bari, 1991, p. 26
[6] Benjamin Lee Whorf, Language, thought and reality, the M.I.T. press, Cambridge, Massachusetts, 1956. In ed. italiana Linguaggio, pensiero e realtà, Boringhieri, Torino, 1970. Whorf morì all’età di 44 anni a causa di un cancro, non potendo così portare a termine un’opera più generale sulle sue teorie. Il lavoro di Carroll raccoglie i saggi di Whorf che sarebbero serviti alla stesura completa del volume e mantiene il titolo originale ipotizzato da Whorf.
[7] Benjamin Lee Whorf, Scienza e linguistica, in Linguaggio, pensiero e realtà, Boringhieri, Torino, 1970, p. 163-176
[8] Roberto Giacomelli, La magia del significato, corso elementare di semantica della parola, Cuem, Milano, 2001, p. 15
[9] Benjamin Lee Whorf, Scienza e linguistica, in Linguaggio, pensiero e realtà, Boringhieri, Torino, 1970, p. 169-170
[10] Edward Sapir, La posizione della linguistica come scienza, in Cultura, linguaggio e personalità, Einaudi, Torino, 1972, p. 58
[11] Benjamin Lee Whorf, Linguaggio, pensiero e realtà, Boringhieri, Torino, 1970
[12] W. Von Humboldt, La diversità delle lingue, Laterza, Bari, 1991
[13] Steven Pinker, L’istinto del linguaggio, come la mente crea il linguaggio, Mondadori, Milano, 1998
[14] W. V. O. Quine, Il problema del significato, Ubaldini editore, Roma, 1966
[15] G. R. Cardona, I sei lati del mondo, linguaggio ed esperienza, Laterza, Bari 1985
[16] L. Anolli – P. Legrenzi, Psicologia generale, il Mulino, Bologna, 2001
[17] Edward Sapir, La posizione della linguistica come scienza, in Cultura, linguaggio e personalità, Einaudi, Torino, 1972, p. 63-64
[18] Edward Sapir, La lingua e Il ruolo della linguistica come scienza, entrambi contenuti in Cultura, linguaggio e personalità, Einaudi, Torino, 1972
[19] Edward Sapir, La lingua, in Cultura, linguaggio e personalità, Einaudi, Torino, 1972, p. 8
[20] Edward Sapir, Il ruolo della linguistica come scienza, in Cultura, linguaggio e personalità, Einaudi, Torino, 1972, p. 10
[21] Ivi, p. 61
[22] Edward Sapir, La lingua, in Cultura, linguaggio e personalità, Einaudi, Torino, 1972, p. 17
[23] La biunivocità può essere esemplificata dall’inglese, in cui al suffisso –s in finale di parola è associata l’idea di plurale.
[24] Edward Sapir, La lingua, in Cultura, linguaggio e personalità, Einaudi, Torino, 1972, p. 20
[25] Ivi, p. 21
[26] Edward Sapir, Il ruolo della linguistica come scienza, in Cultura, linguaggio e personalità, Einaudi, Torino, 1972, p. 63
[27] Edward Sapir, La lingua, in Cultura, linguaggio e personalità, Einaudi, Torino, 1972, p. 7
[28] Ivi, p. 62
[29] G. R. Cardona, I sei lati del mondo, Laterza, Bari 1985, p. 33
[30] Ibidem
[31] Il riferimento è a Steven Pinker, il quale bollerà il relativismo, soprattutto in riferimento a Whorf, come misticismo. Lo scontro innatismo – relativismo sarà oggetto del capitolo 2 di questa tesi.
[32] Edward Sapir, Il ruolo della linguistica come scienza, in Cultura, linguaggio e personalità, Einaudi, Torino, 1972, p. 57
[33] Ivi, p. 58
[34] In Whorf la posizione sarà diversa, ma questo sarà trattato nel paragrafo seguente.
[35] Edward Sapir, La lingua, in Cultura, linguaggio e personalità, Einaudi, Torino, 1972, p. 27-28
[36] Benjamin Lee Whorf, Linguaggio, pensiero e realtà, Boringhieri, Torino, 1970
[37] Ibidem
[38] Benjamin Lee Whorf, Fattori linguistici nella terminologia architettonica hopi, in Linguaggio, pensiero e realtà, Boringhieri, Torino, 1970, p. 156
[39] Ivi, p. 157
[40] Ivi, p. 160
[41] In merito all’utilizzo della terminologia “visioni del mondo” sarà effettuato nel capitolo 2.2 un confronto tra le affermazioni di Whorf e il concetto di Weltansicht presente in Wilhlem von Humboldt.
[42] Benjamin Lee Whorf, La linguistica come scienza esatta, in Linguaggio, pensiero e realtà, Boringhieri, Torino, 1970, p. 178
[43] In merito alla definizione di versione forte e debole dell’ipotesi Sapir-Whorf saranno esposte riflessioni nel paragrafo seguente: 1.3, per ora possiamo notare come le prime coincidano con il determinismo, mentre le seconde con il relativismo.
[44] Benjamin Lee Whorf, Scienza e linguistica, in Linguaggio, pensiero e realtà, Boringhieri, Torino, 1970, p. 178
[45] Ivi, p. 169
[46] Ibidem
[47] Ibidem
[48] Ivi, p. 170
[49] G. R. Cardona, I sei lati del mondo, linguaggio ed esperienza, Laterza, Bari 1985
[50] Ivi, p. 1
[51] Ivi, p. 2
[52] Ivi, p. 2-3
[53] Luigi Anolli & Paolo Legrenzi, Psicologia generale, il Mulino, Bologna, 2001
[54] Ivi, p. 197
[55] Ibidem
[56] Ibidem
[57] Ibidem
[58] Ivi, p. 258
[59] Ibidem
[60] Ivi, p. 259
[61] Steven Pinker, L’istinto del linguaggio, come la mente crea il linguaggio, Mondadori, Milano, 1998, p. 399
[62] Ivi, p. 10
[63] Ivi, p. 49
[64] Il riferimento è al contenuto dei paragrafi 1.2 in cui vengono analizzate le teorie di Whorf e al successivo 1.3 nel quale viene verificata la validità generale dell’ipotesi Sapir-Whorf
[65] Steven Pinker, L’istinto del linguaggio, come la mente crea il linguaggio, Mondadori, Milano, 1998, p. 303
[66] Jean Pierre Changeux & Paul Ricoeur, La natura e la regola, alle radici del pensiero, Raffaello Cortina editore, Milano, 1999
[67] Termine preferito da Ricoeur a normale
[68] Ivi, p. 47
[69] Wilhlem Von Humboldt, La diversità delle lingue, Laterza, Bari, 1991
[70] Ivi, p. 47
[71] Ibidem
[72] Ibidem
[73] Ibidem
[74] Ivi, p. XLII
[75] Ivi, p. L
[76] Ibidem
[77] Ibidem
[78] Ivi, p. XLIII
[79] W. V. O. Quine, Il problema del significato, Ubaldini editore, Roma, 1966
[80] W. V. O. Quine, Il problema del significato in linguistica, in Il problema del significato, Ubaldini editore, Roma, 1966, p. 45
[81] W. V. O. Quine, Su ciò che vi é, in Il problema del significato, Ubaldini editore, Roma, 1966, p. 10
[82] W. V. O. Quine, Il problema del significato in linguistica, in Il problema del significato, Ubaldini editore, Roma, 1966, p. 46
[83] Ivi, p. 57
[84] Ibidem
[85] Ivi, p. 58
[86] Gioco di ambiguità semantica. Relativi è in questo caso sinonimo di enigmi connessi, attinenti ed al tempo stesso aggettivazione di enigmi relativisti, di natura relativistica.
[87] W. V. O. Quine, Il problema del significato in linguistica, in Il problema del significato, Ubaldini editore, Roma, 1966, p. 58
[88] Ibidem
[89] Ivi, p. 59
[90] Ibidem
[91] W. V. O. Quine, Su ciò che vi é, in Il problema del significato, Ubaldini editore, Roma, 1966, p. 10
[92] Franco Brioschi, Un mondo di individui, saggi sulla filosofia del linguaggio, edizioni Unicopli, Milano, 1999, p. 114
[93] Ivi, p. 129
[94] Ivi, p. 135
[95] Giorgio Raimondo Cardona, La foresta di piume, manuale di etnoscienza, Laterza, Bari, 1985